Rete civica di Palermo:
Itinerario 2
S. Giuseppe Teatini - Piazza Bologni - Palazzo Geraci - Palazzo Belmonte-Riso - Palazzo Villafranca - Statua di Carlo V - Biblioteca Nazionale e Collegio dei Gesuiti - Palazzo Arcivescovile - Corona imp. Costanza Cattedrale - Badia Nuova - Cappella e Loggia Incoronata - Piazza Vittoria - Palazzo Sclafani - Villa Bonanno e Case romane - Statua di Filippo V - Palazzo dei Normanni - Cappella Palatina - Porta Nuova e Osservatorio Astronomico - S. Giovanni degli Eremiti - Porta Montalto - Chiesa del Fornai - Palazzo d'Orleans - Parco d'Orleans - S. Maria del Rimedi - Chiesa e Convento dei Cappuccini - Catacombe dei Cappuccini - Castello della Zisa.

Partendo sempre dai Quattro Canti, ma imboccando adesso il Corso Vittorio Emanuele in direzione opposta al mare, si incontrano nel breve tratto fino a Porta Nuova monumenti di grande interesse storico.
In primo luogo la Chiesa di S. Giuseppe dei Teatini (ultimata nel 1645) che ha ingressi sia nella via Maqueda sia nel Corso Vittorio Emanuele. Questo monumento barocco a croce latina, a tre navate divise da quattordici colonne monolitiche di marmo di Billiemi, era ricco di stucchi dorati e di affreschi dovuti al messinese Filippo Tancredi e raffiguranti episodi della vita di S. Gaetano che erano andati completamente perduti a seguito delle incursioni aeree del 1943. Essi sono stati da poco completamente restaurati. Il turista non trascuri di cercare il S. Gaetano in adorazione di Pietro Novelli, adesso che i restauri generali della bella chiesa sono stati completati, restituito al suo antico posto, dopo questa eccezionale parentesi: il Crocifisso in legno di frate Umile Pintorno che è nella cappella di destra; il presbiterio di maestosa architettura marmorea; e infine la grande cripta sotto la chiesa in cui si venera una Madonna della Provvidenza.

Continuando pel Corso, si incontra la Piazza Bologna, aperta verso il 1566 la cui austera fisionomia, dovuta soprattutto ai palazzi Villafranca e Riso, è stata mutata dalla guerra. Vi si trova la statua di Carlo V, opera di Scipione Li Volsi, sempre riuscita a scampare in tempi di rivoluzione, nell'atto di giurare fedeltà alle costituzioni del Regno di Sicilia. Essa fu, specie nel Sei e Settecento, luogo preferito per la esposizione dei cartelli contenenti satire e pasquinate contro il governo o gente potente: querele anonime, appese spesso di notte al collo della figura dell'imperatore, a indicare uno stato d'animo diffuso nella popolazione nell'unico modo di protesta possibile in quei tempi. La statua è fronteggiata dalla tragica ruina, nel corso, del Palazzo Belmonte - Riso, di G. V. Marvuglia.
Nel Palazzo Villafranca, sorto sullo stesso posto dove era nel Cinquecento il palazzo della famiglia Bologna, trovò riposo per qualche ora Garibaldi il giorno stesso dell'entrata in Palermo, superata di sorpresa la prima resistenza nemica. In fondo alla piazza è la Via S. Chiara. Si imbocchi e si troverà al n. 3 il Palazzo Speciale.

Riprendendo il Corso, si incontra ora il Palazzo Geraci e quindi la chiesa del S. Salvatore, che, dopo essere stata restaurata viene anche usata felicemente come auditorium. Si tratta di una ardita costruzione dovuta al famoso architetto Paolo Amato che, per incarico delle monache Basiliane, tra il 1682 e il 1701 condusse i lavori di trasformazione.

Quasi di fronte, è l'antico Collegio dei Gesuiti adibito oggi a Biblioteca Nazionale: edificio che, offeso dalla guerra, è stato ricostruito.
Il vasto salone di lettura al primo piano fu gravemente colpito e tra le macerie rimasero libri di considerevole valore che sono stati però gradatamente recuperati. Nello antico Collegio dei Gesuiti nel 1812 si riunirono i baroni siciliani e ivi solennemente votarono la fine dei loro privilegi.
All'altezza della Biblioteca il 29 maggio 1860, cercando opporsi alla sortita dei borbonici da Palazzo Reale, caddero, nel tentativo generoso di improvvisare una barricata, due patrizi, i fratelli Pasquale e Salvatore Di Benedetto. La loro famiglia meritò il paragone coi Cairoli. Sette anni più tardi il primogenito Raffaele cadeva eroicamente nella campagna dell'Agro Romano, nel romantico tentativo di liberare Roma.
Poco oltre è il Palazzo S. Ninla-Casirone.

Ed eccoci ora nella rettangolare vasta Piazza della Cattedrale, limitata da una balustrata marmorea sulla quale si leva una teoria di statue di santi.
La Cattedrale riceve, tuttavia, il necessario respiro dalla piazza e la sua mole si impone a distanza. Qui da epoche lontane furono monumenti sacri al culto. Esistette dapprima una basilica cristiana che, nel IX secolo, all'atto della conquista, gli Arabi ridussero a moschea. L'antica moschea fu poi dalla pietà dei re normanni trasformata a tempio del cattolicesimo. Gualtiero Offamilio (Walter of the Mill) arcivescovo di Palermo, ne fu il fondatore nel 1185; adesso dorme il suo sonno eterno in un sepolcro della cripta.
Ma quale disarmonia nelle linee del grande complesso costruttivo! L'antico edificio normanno, che aveva della chiesa e della fortezza insieme, ha perso la sua originalità per posteriori trasformazioni ed aggiunzioni dovute soprattutto tra il 1781 e il 1801 al fiorentino Ferdinando Fuga, sì che oggi della Cattedrale dell'Offamilio noti restano che le absidi coi campanili corrispondenti ed una parte delle mura della nave.
Ogni secolo portò le sue modificazioni al vetusto monumento, ma se in molti casi esse ne aumentarono il decoro, lo stesso non può dirsi dell'opera, talvolta addirittura vandalica, del Fuga, il quale trasformò il compito ricevuto di provvedere ad alcuni urgenti ripari in quello di rinnovatore, purtroppo quanto infelice!, dell'intero edificio. A lui si deve la nave trasversa, a lui la cupola settecentesca, a lui i pesanti e sgraziati merli, a lui infine la dispersione delle decorazioni un dì superbe come appare da qualche residuo, della grande tribuna dovuta ad Antonello Gagini.
Una testimonianza del periodo saraceno è data da una iscrizione cufica in una delle colonne del portico meridionale. Essa è presa dalla Sura VII v. 55 e dice:

« Il nostro Signore Iddio creò il giorno seguito dalla notte; la luna e le stelle sono sotto il suo comando. Non è vero che egli ha creato queste cose? Non è vero che egli è il padrone? Benedetto Iddio signore dei secoli... ».
La statua, al centro del piano è di S. Rosalia.
L'interno della Cattedrale che sta tra il barocco e il neo classico sembra squallido dinanzi alla ricchezza e monumentalità esterne.
Il turista non dimentichi di visitare il tesoro, la cripta e le tombe reali.
Il tesoro aduna gli oggetti più preziosi scoperti nelle tombe reali. Si fermi soprattutto l'attenzione sulla corona di Costanza d'Aragona, su un prezioso paliotto spagnolo e un breviario miniato del sec. XV.

La cripta è umida, oscura. Vi si accede malagevolmente. Sotto le volte a crociera sfilano in due navate i sarcofagi, una diecina, la più parte occupati da arcivescovi di Palermo. Fra essi quello del fondatore della Chiesa Gualtiero Offamilio. Ad Antonello Gagini si attribuisce la figura giacente sul sesto sarcofago e raffigurante l'arcivescovo Giovanni Paternò.

Le tombe reali, che si trovano in due cappelle chiuse da cancellate e precisamente verso il principio della navata destra, sono sei. Quattro di esse sotto baldacchini, due incassate nel muro. Sono nel muro Costanza d'Aragona, moglie di Federico II, morta nel 1222, presso i piedi della quale per molti secoli si trovò in una cassetta di legno la corona imperiale che ora fa mostra di sé nel tesoro della chiesa; e il duca Guglielmo, figlio di Federico II di Aragona.
Sotto ricchi baldacchini sostenuti da colonne striate di mosaici riposano invece il re Ruggero II e l'imperatrice Costanza, sua figlia, che fu madre del famoso imperatore Federico II. Meno appariscenti, anche se anch'esse sotto baldacchini, le arche di porfído degli imperatori Enrico VI e Federico II: fulgore di diademi imperiali su aquile sveve. Sangue normanno, svevo, aragonese pulsò nei corpi che la potente semplicità dei sarcofago oggi rinserra.
L'epoca radiosa della Sicilia può dirsi essere tutta nel nome e nella gloria dei suoi re ed imperatori che dormono nella Cattedrale. Nell'arco, breve ma costruttivo della loro vita, Palermo vide sorgere le chiese splendide, i palazzi superbi, tornare gli eserciti vittoriosi, umiliarsi gli ambasciatori di terre lontane, folgorare la scuola poetica siciliana, prendere da Federico inizio la storia letteraria d'Italia.

Qui è quanto resta di colui che portò guerra al papa, ai comuni, ai saraceni, ai feudatari d'Italia e di Germania: figura dura nelle armi, gentile nella corte, ancor oggi dal fragore delle battaglie resa viva, palpitante non in questa chiesa, in questa Palermo soltanto da cui si dipartì per i suoi voli rovinosi, ma in Italia, in Germania, in Levante, ovunque fossero ribelli da piegare, allori da mietere.

Nel 1781 Rosario Gregorio fu incaricato di stendere un rapporto sulle tombe reali dovutesi aprire per gli spostamenti disposti dal Fuga. L'insigne storico siciliano ci ha lasciato una relazione precisa e ancor viva. "Sul cadavere di Federico ve ne erano sovrapposti altri due. Quello del destro lato era coperto di un manto regale, ed involto in un drappo cucito, con entrovi della bambagia. Tra il drappo e il manto al fianco destro era una spada. Quella parte del drappo, che copriva la testa, avea a filo del collo come un largo nastro ornato di perle, che formavano varie aquile. Indi si argomentò essere desso il cadavere di Pietro Il di Aragona. L'altro di minor grandezza gli giaceva a lato sul fianco destro. Il suo braccio diritto ridotto a pure ossa era steso-sopra il petto di Federico sotto al cadavere di Pietro. Era tutto avviluppato in un drappo logoro, e non vi si trovarono che due anelli. Sotto ambidue giaceva supino il corpo dell'Imperador Federico. Era esso di ornatissimi vestimenti coperto. Nella testa, posato sopra un cuscino di cuoio, aveva una corona aperta, i cui raggi di sottilissime laminette di argento dorato, sono ornati di perle e di pietre. Dal lato sinistro della testa era riposto il globo imperiale. Tre tuniche vestivano il cadavere. La prima pare un piviale di drappo lavorato che si stringeva al petto con un gioiello di figura ovale di amatista incassato in oro, circondato da venti piccoli smeraldi, ed a quattro estremità di esso erano quattro grosse perle. La seconda che è di drappo semplice, e senza niun lavoro, pare una dalmatica con maniche terminate con gallone di oro largo quattro dita, ed essa era cinta da uno stretto gallone di seta, adornato di varie rose di argento indorato.
La terza finalmente è un camice di lino, il quale scende fino a coprire le cosce e le gambe, e lo cingeva un grosso cordone di lino aggruppato nel mezzo, e pendeva dall'un dei lati. Si vide nel camice dalla parte sinistra sotto al collo ricamata di seta una croce; e l'estremità del collo e delle maniche sono ornate di fregi a tre ordini, e nelle maniche il fregio maggiore è ricamato di lettere cufiche. Le sue mani incrocicchiate posavano sul ventre, e in un dito della destra era un anello di oro con uno smeraldo. Dal fianco sinistro era posta la spada con la manica di legno: attorno a cui erano attorcigliati serratamente sottilissimi fili d'argento: tutto poi il guernimento è di argento indorato, e vi ha in esso tre anellini, dove entravano più cordoncelli di seta, nelle punte sfioccati. La sua cintura era un gallone di seta tessuto stretto e serrato a disegno di color cremisi, che tira sul fosco, ed è ad esso appiccato un fermaglio con assai altri fregi di argento indorato, nei quali veggonsi vari lavori. Era egli dalle cosce sino ai piedi vestito di panno, che pare lino, e formava in uno calzoni, calze e peduli. Si trovò calzato di stivaletti di seta, le cui scarpe nel tomaio erano ornate da un gallone dall'alto al basso, e nel mezzo è tessuta una cerva; aveano essi gli sproni cinti al di sopra con correggia. Tutte le ossa del cadavere, e le sue giunture erano intatte, di sorta che poteronsi partitamente riconoscere".
Con tanta cura era stato dunque sepolto Federico, e da imperatore quale era, con tutti i segni della sua dignità. E nel 1781 doveva apparire al Gregorio e agli altri preti e uomini di lettere incuriositi in compagnia di altri due cadaveri buttati su di lui alla rinfusa. Splendida occasione, invero, per una meditazione profonda sulla caducità delle dignità umane.

Assorta la mente in tali rimembranze, possiamo adesso lasciare la Cattedrale, quel monumento che, nonostante le deturpazioni del Fuga, produsse nell'illustre storico tedesco Ferdinando Gregorovius " una grande impressione, perché riunisce in sè la semplicità dell'architettura gotica e la grazia degli archi e degli arabescbi saraceni, e non v'è altro edificio a Palermo che mostri con tanta evidenza i contrasti di cui è ricca la storia dell'isola".

Dietro la Cattedrale è la via dell'Incoronazione. Essa prende nome dalla Cappella dell'Incoronata a pianta rettangolare, con piccola abside e vestibolo. La Cappella costituisce quanto resta dell'antica cattedrale di Palermo prima che nella stessa zona sorgesse quella di Gualtiero Offamilio che è l'attuale. La cappella è senza tetto, le pareti furono nel 1860 in parte demolite dalle artiglierie borboniche che tiravano contro i garibaldini. Lungo il fianco sinistro è la Loggia dell'Incoronata che rimonta al sec. XII. Da questa loggia si affacciavano i re di Sicilia appena incoronati per rispondere al saluto della folla. Questa cerimonia dovette svolgersi anche per Ruggero, primo re di Sicilia (1130) e continuare fino a Martino d'Aragona detto il, Vecchio (1402). Di fronte si trova l'ex Ospedale pei convalescenti e per i sacerdoti, degno di nota per gli stucchi del Serpotta che si trovano nel suo Oratorio intitolato ai Santi Pietro e Paolo. Architetto dell'Oratorio fu Paolo Amato. In questa strada è la chiesa della Badia Nuova.

La via in cui dànno la Loggia e l'Ospedale prende nome da Matteo Bonello. Impetuosa ed oscura figura quella di Matteo Bonello, ma la via è bene che prenda nome da lui per il tragico fatto di cui il giovane cavaliere normanno fu protagonista. La notte del 10 novembre 1160. Matteo ed altri congiurati attesero in questo luogo il grande ammiraglio Maione. Uscito questi appena dal Palazzo Arcivescovile, gli si avventarono, lo uccisero; e l'elsa di una spada conficcata sul portone del Palazzo Arcivescovile, in alto a destra, ancora oggi, secondo la tradizione, ricorda il tragico agguato, e vuole perpetuare il ricordo dell'arma con la quale il Bonello stesso trafisse Maione. Inutile cercare più a fondo nella storia lontana: basti accennare a due volti di donne, in quel torbido periodo del regno di Guglielmo il Malo: la figlia di Maione un di desiderata, poi trascurata dal Bonello, e Clemenza figlia naturale di Ruggero II, contessa di Catanzaro, nuova ultima fiamma del cavaliere normanno fattosi assassino. Da qui, comunque, al primo rantolo di Maione sgozzato, ebbe inizio la rivolta di Palermo del 1160 che per le alterne vicende della fortuna vide lo stesso re in un primo momento fatto prigioniero dai partigiani del Bonello e, poi, libero, impadronirsi del temerario avversario e farlo accecare.

Nel Palazzo Arcivescovile, al l' e 2' piano si trova il Museo Diocesano, importante e vasta collezione di arte sacra. Creato nel 1927 e riordinato nel 1952, è stato riaperto al pubblico nel 1972 (lunedì, mercoledì, venerdì ore 10-13). Degne di particolare rilievo la sala delle icone bizantine e dei trittici tre- quattrocenteschi, la sala di S. Cecilia con opere di Riccardo Quartararo, Antonello Crescenzi, e Vincenzo da Pavia; la sala dedicata a Pietro Novelli che custodisce il capolavoro del pittore monrealese (La Pietà) e varie opere della Scuola. Suggestivo il loggiato con statue gaginesche cui segue la sala Gagini dove si ammira anche una pietra tombale di un ignoto cavaliere attribuita allo scultore Francesco Laurana. Seguono le sale Mario di Laurito e di S. Agata, con un superbo quadro di Vito D'Anna. Giorgio Vasari è presente in altra sala con due dipinti. Il Museo possiede anche testimonianze barocche e notevoli tele caravaggesche. Nel vestibolo si era già incontrato un capitello corinzio che si ritiene usato da Antonello Gagini come banco di lavoro. Direttore del Museo è Mons. Prof. Paolo Collura.
Parecchi balconi del Palazzo Arcivescovile danno sul Corso Vittorio Emanuele. Il turista curioso cerchi nei sostegni di uno di essi le teste dei Gagini. Il Palazzo Arcivescovile rimonta al 1460, epoca dell'arcivescovo Simone di Bologna.
Questo lato del palazzo dà sulla Piazza Vittoria già anticamente inteso come Piano del Palazzo, ed oggi occupata dalla Villa Bonanno, giardino pubblico non recintato nel cui centro fra i platani secolari si trovano resti di abitazioni romane con pavimenti a mosaico. A sinistra, nel lato nord est della piazza, si accede nel Palazzo Sclalani. Si narra che Matteo Sclafani abbia voluto fabbricare il palazzo per rivaleggiare col cognato Manfredi Chiaramonte che aveva edificato lo Steri: e che, stimolando gli artefici, riuscisse a completare l'opera in un solo anno, precisamente nel 1330. Oggi il palazzo è adibito a caserma; sull'ingresso nella Piazzetta S. Giovanni Decollato è una edicoletta contenente l'arma degli Sclafani consistente in due gru. Oggetto di particolare ammirazione è stato nel passato il dipinto Trionfo della Morte che tanto ricorda quello celebre del Camposanto di Pisa e che adesso si trova nella Galleria Nazionale di Sicilia (Palazzo Abbatellis).
Più di un semplice cenno meriterebbe, prima di concludere questa, tutt' altro che completa, investigazione del cosiddetto Piano del Palazzo, la Cappella della Soledad, che appartiene allo Stato Spagnolo. Si tratta di una cappella, restaurata dopo l'ultima guerra, in forme linde ed aggraziate, ricca di marmi mischi siciliani del XVII secolo. La Cappella si trova presso la Questura. Il Corso Vittorio Emanuele termina a Porta Nuova, nell'angolo sud ovest della piazza. La Porta, che si impone tuttora per la sua grandiosità, fu costruita nel 1535 perché restasse segnato per i posteri il ricordo della visita di Carlo V, di ritorno dalla vittoriosa spedizione di Tunisi, alla quale avevano con lui preso parte molti nobili cavalieri siciliani.
Sul lato sud ovest della Piazza Vittoria si erge la mole dell'ex Palazzo Reale. Di fronte al palazzo si trova il complesso scultoreo eretto nel 1661, scenograficamente imponente soprattutto per le otto statue che contornano la statua centrale e che rappresenterebbero altrettanti stati governati dal re Filippo IV. E' molto curioso rilevare che il complesso monumentale dedicato a Filippo IV è dominato invece dalla statua, di Filippo V. Il singolare pasticcio fu creato nel 1848 quando i rivoltosi buttarono giù la statua di Filippo IV, e i restauri della monarchia Borbonica non trovarono di meglio che di sostituirla con quella di Filippo V che avevano a portata di mano.
Con rapidi e precisi tocchi il Gregorovius così ricorda il Palazzo nelle sue " Passeggiate per l'Italia " (1885): "Questo castello, così straordinariatùente interessante in ispecial modo pei tedeschi, poiché fra le sue mura trascorse la sua poetica giovinezza uno dei più grandi imperatori di Germania, e del pari interessante per gli italiani che lo considerano quale culla della poesia nazionale, sorge in fondo alla via detta Cassaro sulla piazza da cui si domina tutta la città. A quanto pare, è l'edificio più antico di Palermo, non risalendo soltanto ai saraceni, ma ai cartaginesi, ai romani ed ai goti, che vi stabilirono la loro sede principale. Ivi sorgeva indubbiamente il palazzo degli emiri, da cui si farebbe derivare il nome di Cassaro, che fu poi esteso a tutta la città e finì per rimanere alla strada principale. Si vuole che il palazzo sia stato costruito dal saraceno Adelkan; Ruggero I e il suo successore lo ampliarono; ivi vissero Federico, Manfredi e i suoi successori, che lo resero sempre più vasto riducendolo nella forma irregolare di palazzo e di fortezza che attualmente presenta. Falcando così ce lo descrive ai tempi di Guglielmo il Malo: «Lo stupen- do edificio è costruito con pietre lavorate con grande cura ed arte squisita; è circondízto da solide mura ed è pieno di, ori e di argenti. Alle estremità sorgono due torri, la Pisana, destinata a custodire i tesori regali, e la Greca, dominante la parte della città chiamata Kemonia. Nel centro sorge una sala straordinariamente decorata, per nome joaria, in cui si trattengono in udienze segrete il re e i suoi confidenti, ed in cui il re concede udienza ai- baroni, per discutere degli aari più importanti del regno ». Quasi ogni traccia di quelle antiche costruzioni è ormai andata perduta; sola rimane la torre di S. Ninfa, che doveva essere la parte più antica del castello, e la famosa Cappella Palatina. In cima alla torre sorge l'Osservatorio, da cui padre Piazzi il l' gennaio 1801 scoprì Cerere, la stella dal nome della dea protettrice dell'ísola. Il cortile ha tre ordini di portici che lo circondano; al primo piano trovasi la celebre Cappella Patatina, uno dei più bei monu- menti dell'epoca normanna, costruita da re Ruggero nel 1132 e dedicata a San Pietro. Essa è connessa al palazzo e non ha una vera facciata; vi si accede da un portico sostenuto da otto colonne di granito egiziano, con mosaici nelle parti superiori, illustranti i fatti dell'antico testamento e l'inco- ronazione di Ruggero. Sull'ingresso sta una iscrizione in lingua greca, araba e latina, che indica come il re avesse fatto disegnare con somma cura nel palazzo un orologio solare. L'iscrizione in lingua araba è stata così tradotta: «Fu dato ordine dalla maestà reale, il magnifico ed illustre re Ruggero, che Iddio protegga ed eterni, di costruire questo strumento per segna)'e le ore, nella metropoli di Sicilia, protetta da Dio, l'anno 536» (dell'Egira). Quando Gregorovius visitava Palermo, si credeva che dell'antico edificio arabo-normanno, già turrita fortezza col nome di El Halka, non esistessero che la Torre Pisana o di Santa Ninfa e la Cappella Palatina. Ma quando il palazzo, che faceva parte dei beni dei Savoia, passò alle dipendenze del Mi- nistero della Pubblica Istruzione (1921) e vi si stabilirono le Soprintendenze alle Gallerie ed Opere d'Arte della Sicilia e ai Monumenti della Sicilia Occi- dentale, diligenti ricerche portarono alla scoperta di ambienti debolmente 'I-i- cordati nel corso della storia. Così dicasi delle Prigioni Politiche, le cui strette fe,ritoie davano sull'ormai scomparso torrente Kemonia; della Stanza dei Tes@)rì nella Torre Pisana; mentre mosaici venivano alla luce nel locali sovrastanti, e una volta con stalattiti, simili a quelli della Zisa, appariva nell'Osservatorio. Veniva liberata da tramezzi e murature la Sala degli Armigeri. Nel 1947 ulte- ríori scoperte sono state fatte dall'allora Soprintendente ai Monumenti, dott. Filippo Guiotto. Ma il gioiello del Palazzo, di tutta Palermo, anzi, è la Cappella Patatina, dove, secondo la felice espressione di Renato Bazin, tutta la poesia del Nord e quella del Mezzogiorno si incontrano e si mescolano. Amy Bernardy, esal- tando la chiusa bellezza di Palermo, prepara il visitatore della Cappella al sublime prodigio che l'attende varcando l'ingresso: « Solo quando entrerete nel cavo d'oro della Cappella Palatina, sentirete che quella che avevate finora creduto l'ultima parola di bellezza in fatto di mosaico, al mondo - Roma, Venezia, Ravenna, e qui Palermo stessa alla Martorana - doveva ancora essere superata e trascolorata da qualche cosa di più raro, di più squisito, di più fantastico, di più sontuoso; dal gioiello fatto cattedrale; dal ricamo ecclesiastico divenuto la chiesa stessa e cristallizzato di luce in luce e di meraviglia in meraviglia. La profonda ricchezza della penombra fa scintillare il miracolo infinito delle mura e del soffitto; e i chiarori inattesi e i riflessi sobbalzanti dalle clamidi dei santi agli sfondi dei cieli ingenuamente e meravigliosamente suggeriti al vostro sguardo abba- gliato, nelle pietruzze luminose, ve lo affascinano e ve lo trattengono in un cerchio di indescrivibile splendore ». Il vestibolo è ricco di sette colonne delle quali sei di granito egiziano; i mosaici moderni che sostituiscono gli antichi sul muro non tolgono nulla alla bellezza del portico. Una volta dentro, se il turista, come gli si augura, potrà con un solo sguardo cogliere l'incomparabile fulgore dei mosaici liberati dal velo e dagli altri accorgimenti difensivi suggeriti dallo stato di guerra, egli avrà colto veramente, nella penombra che la luce delle finestre crea riflettendosi sulle pareti,, il segreto della chiusa bellezza di Palermo, Egli potrà solo in un secondo momento notare che la cappella è a forma di basilica a tre navate, che il santuario si sopraeleva di 5 gradini, che le otto strette finestre sono coperte di iscrizioni latine e greche, che le navate sono divise da colonne, che quella mediana ha un soffitto ligneo a stalattiti. Adattandosi all'ambiente e postosi a girare, scorgerà nella piccola cappella, che è larga solo 13 metri e lunga 33, altre cose degne di meraviglia che, nel luogo stesso meraviglioso, possono pur da sole Incantare. Così dicasi dell'ambone sostenuto da colonne, così del marmoreo candelabro per il cero pasquale che rimonta al sec. Xll, così del firmamento di lucide stelle che è il soffitto di mezzo, come non temette in un omelia esaltarlo in questa chiesa, nel secolo Xll, il monaco Filogato. Po.;. musaici dovunque, vitrei, calcareí di epoche diverse, ma tutti meravigliosi e su fondo d'oro. Questo luccichio d'oro impe- dirà di distinguere i musaici antichi da quelli più recenti; accompagnerà il visitatore fuori della cappella, nelle scalinate marmoree del palazzo, farà sembrare squallide le pur famose sale degli appartamenti reali del piano superiore. Sfilano le sale: quella dei Vicerè, quella del Parlamento con affre- schi di Giuseppe Velasquez, quella d'Udienza, quella infine di Re Ruggero nella Torre Pisana, interessante per i musaici che rappresentano scene di caccia; in nessun luogo si troverà l'aureo scintillio della Cappella. Se il visitatore non ha trascurato di visitare il Tesoro della Paiatina (costi- tuito in prevalenza di splendidi cofanetti, fra cui notevole uno arabo finemente intarsiato), non gli resta ormai che salire all'Osservatorio Astronomico. La fatica della lunga scala sarà compensata dal panorama che si offrirà ai suoi occhi. Innumerevoli visitatori di Palermo si sono da qui affacciato a rimirare la città e la lussureggiante Conca d'Oro; ma solo Giuseppe Pitrè, il più celebre dei demopsicologi siciliani, ha saputo cogliere, con cuore di figlio e di artista in- sieme, tutto lo splendido panorama: il mare di cobalto che si perde nella lontananza, i superbí monumenti arabi e normanni che si staccano dagli edifici, la chiostra dei monti, le ville opulente dei signori con accanto gli orti, i frutteti, il fulgore soprattutto delle arance, l'arabo castello della Favara o Maredolce voluttuosamente cantato dai poeti mussulmani, sì da poter con- cludere: « A destra tutto parla del passato, a sinistra tutto brilla del presente, là tutto è vecchio, qua tutto è nuovo. Ad ogni passo che si muova da quel lato è un'orma profonda di emiri e di principi normanni: ed ogni passo che si faccia da questo, è un'eco solenne di nobili palermitani ». Lì dove cercarono il fastoso soggiorno gli emiri arabi e i principi nor- manni, non vollero i nobili palermitani stabilire le loro ville settecentesche per i loro dolci e più spensierati riposi. Altra società, altro modo di intendere la vita, e i cavalieri e gli abatini galanti di due secoli or sono preferiscono non incontrare le ombre severe dei conquistatori. Ma tutto. ciò è colto dal conoscitore della storia locale; chi, spreparato, si affaccia dalla S.pecola coglie soltanto le bellezze della natura, segue ammirato le superbe distese degli agrumeti, erra su per i monti, cerca forse la via. da cui scese Garibaldi, e scruta lontano, verso il mare azzurro che si insena nefl'anfiteatro del golfo, ed è pago del miracolo di Dio. Or, se vuole concludere con un momento di delizioso raccoglimento la giornata dedicata a tanti monumenti di primo ordine che tanti diversi rapi- menti gli hanno suscitato, scenda a S. Giovanni degli Eremiti. Uscendo dal palazzo, giri attorno alla statua di Filippo V, imbocchi la gradinata, volti a destra in Via del Bastione, poi a sinistra in Via.dei Benedettini: ecco la mole suggestiva di S. Giovanni degli Eremiti con le sue cupolette rosse, che già abbiamo visto a S. Cataldo, con le mura esterne nude, col suo aspetto. orientale a cui aggiunge freschezza la vegetazione del giardino. Non importi troppo al turista sapere che la forpa primitiva della chiesa era a croce egiziana, che le sue absidi sono tre, come non importò a un visi- tatore intelligente e pieno di sentimento: A. Dry. « Ciò che mi è piaciuto, egli scrive, in quest'angolo di Palermo è il chiostro, un piccolo chiostro medievale, certamente posteriore alla chiesa, ma di una deliziosa intimità e molto ben conservato. Nulla è mutato in questo chiostro da ottocento a novecento anni. Le sottili colonne di una incomparabile grazia sono quelle che fecero innalzare gli eremiti di S. Giovanni. Sui banchi di marmo negli angoli del piccolo chiostro, monaci in tonache di bigello sono venuti a sedersi per leggere all'ombra i testi sacri, per sfuggire ai raggi del sole che, allora come oggi, filtravano attraverso i ricami delle colonnette, irra- diavano i rami dei rosai. Mandarini dovevano, fin dal XIII secolo, crescere nelle aiuole del chiostro... Istintivamente attendo che sotto la porta di marmo appaia un vecchio monaco... Ho l'impressione che verrà a pregare e a cogliere le rose. In mezzo a questo bello scenario, a questi soavi profumi, ì buoni eremiti di S. Giovanni dovevano pensare alla morte senza amarezza e senza dispera- zionq. Sebbene separati dagli uomini, dovevano e potevano amare la vita poiché avevano in questo chiostro una parte di ciò che fa ancora oggi la delizia degli uomini in Sicilia: il sole, l'ombra, i fiori ». Nelle vicinanze è la Cbiesa dei Fornai. Lasciata la chiesa di S. Giovanni, dirigersi verso il Corso Tukory, prima del quale si trova la Porta Montalto. Immettersi quindi, nel Corso Re Ruggero per visitare il grandioso parco d'Orleans-ACI ed all'uscita, subito sulla sinistra, il Palazzo d'Orleans, sede della Presidenza della Regione, Siciliana. Più avanti sul lato Nord della PiaZza Indipendenza, la Cbiesa di S. Maria dei Rimedi, dove riposa il defunto cardinale Ernesto Ruffini, per merito del quale, questa chiesa, è stata riaperta al culto. E' un singolare monumento dell'architettura romana della Controriforma. Subito dopo, immettersi nel Corso Calatafimi, se con mezzo proprio, altrimenti prendere l'autobus dell'A.M.A.T. proveniente dalla Stazione Centrale per andare a visitare il magnifico Palazzo della Zisa che il normanno Guglielmo I iniziò e che ancor oggi si ricorda col nome che provie- ne dalla corruzione dell'arabo el aziz (splendente). Da Romualdo di Salerno ap- prendiamo che Guglielmo lo volle circondare da ameni giardini e deliziosi laghet- ti. La massa murale rettangolare oggi si presenta fiancheggiata da torricelle qua- drate: purtroppo le famiglie che vi abitavano l'hanno deturpata. Ma mirabile è ancora l'effetto della sala a pianterreno, specie di vestibolo nel cui fondo è una fonte da cui'con lieve murmure scorre perennemente l'acqua. Oggi essa si perde attraversa un canaletto sotto il pavimento dell'íngresso, ma sappiamo che ancora nel 1526 andava ad alimentare un vivaio. Oggetto di studi e di polemiche è stata una iscrizione cufica a grandi lettere di stucco che corre sull'arco d'ingresso e loda la fresca bellezza del luogo. Il Gregorovius, salito sul tetto del palazzo, conservò una impressione in- cancellabile di tutta la zona a sud e a sud ovest di Palermo, dai re normanni destinata a immenso parco e dagli artisti arabi lieta con fontane, vivai, chioschi. « Nel fissare dal tetto della Zisa, egli disse, i giardini, vien fatto di attendere l'uscita delle belle odaliscbe al suono di una maizdota e di un emiro dalla lunga barba, in caltano rosso e Pantofole gialle. Lo stesso avrebbe potuto dire della Cuba che in linea d'aria non è molto lontana dalla Zisa. Per pervenirvi, è agevole partire da piazza Vigliena, per. correre il Corso Vittorio Emanuele, il Corso Calatalíini fino all'altezza della Caserma Tukory. Per accedere al monumento assumere informazioni presso la predettà caserma (al n. 94 del Corso). Il palazzo fu fondato da Guglielmo II nel 1180 nel centro di un meravi- glíoso parco. Una grande peschiera allietava il luogo. Secondo alcuni eruditi della topografia palermitana qui sarebbe stato il famoso lago di Albeira che. nell'opinione comune fondata sul giudizio dell'abate Salvatore Morso, era stato identificato con quello vicino Maredolce. Ma di quel che il viaggiatore ebreo Beniamino di Tudela nel 1172 vide e ammirò oggi non resta, fra la Cuba e la Cubula, nella proprietà Napoli, che qualche infetto acquitrino. Tuttavla i visitatori odierni della Cuba possono considerarsi ben più fortunati di coloro che fino a pochi anni addietro volevano visitarla. Infatti, la Soprintendenza ai Monumenti ha portato a termine cospicui lavori che consentono di ammi- rare l'architettura musulmana della facciata ed osservare la sala centrale quadrangolare. Dalla Cuba al Convento dei Cappuccini la via è breve. Basta percorrere il Corso Calatafimi fino all'altezza della via Pindemonte e pervenuti imboccarla. In fondo si troveranno il convento e il cimitero dei Cappuccini. Ma quel che fortemente impressionò Ippolito Pindemonte, quel che ancor oggi è la ca- ratteristica del luogo, è lei visita alle Catacombe, non consigliata alle persone sensibili. Si tratta, infatti, di lunghi sotterranei alle cui pareti si allineano circa 8.000 mummie; quali in piedi, quali seduti, quali in urne. Donne e preti sono sistemati in corridoi distinti. La macabra rassegna della morte è forse unica nel mondo. Essa consente di giudicare della potenza distruttiva di essa, e di rendersi conto come, passando il tempo, lo stesso orrore che essa desta possa tramutarsi in senso di ridicolo e di schifo. Dal 1881 non è stato più consen- tito il deposito di cadaveri. Nel cimitero fu inumato nel 1852 il grande storico romeno Nicola Balcescu; ma vano è oggi ricercarne la spoglia. Una modesta lapide, apposta dagli esuli della sua patria, nel 1952, ne ricorda l'ingresso. Tutta la zona conserva resti disseminati dei rifugi di ozio degli antichi si- gnori arabi o normanni che siano. Fra i giardini e gli agrumeti, un tempo carat- terrizanti la zona ed oggi violentemente respinti dal furore edilizio di questi ultimi anni si possono trovare le pallide, e talvolta, oltraggiate rovine del Castello dello Scibene, nel fondo Dicara, già luogo di villeggiatura degli arci- vescovi palermitani, del Casino Napoli, della Cuba Soprana.




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